Le scritture meroitiche, forse un mistero svelato!

Com’è noto il regno meroitico  va all’incirca dal VI sec. a.C. al IV sec.  della nostra era.  Trattasi di un’area  abbastanza vasta che in certo modo fungeva da diaframma tra l’Egitto  ed il regno di Axum in Etiopia, con centro principale Meroe. Questo regno si sviluppò essenzialmente perché crocevia di traffici tra l’Egitto e l’Africa nera, soprattutto l’Etiopia. Rammento che i confini dell’Egitto in epoca meroitica si fermavano alla prima cataratta, ove oggi sorge il lago Nasser.  Il massimo sviluppo economico questa civiltà l’ebbe durante l’epoca romana essendo l’Impero fortemente interessato alle importazioni dal regno di Axum  di spezie ed altri prodotti esotici e di lusso molto richiesti  nei grandi centri dell’Impero quali Alessandria e Roma.  Con il dissolvimento dell’Impero romano anche il regno meroitico decadde passando sotto la sovranità di re etiopici. Le iscrizioni rinvenute nei siti archeologici di questa regione evidenziano un particolare tipo di scrittura derivato chiaramente dai segni egizi sia geroglifici, corsivi e demotici, molto spesso sotto forma mista. E’ stato Francis L.  Griffith, negli anni 1909 – 1910, il primo ad affrontare lo studio ed interpretazione di queste scritture, all’apparenza non di difficile decifrazione, ma in realtà come si vedrà nel prosieguo  molto “ermetiche”.  Nel confrontare, a mero titolo di esemplificazione, alcuni di questi segni  con il  demotico egizio si rileva quanto segue: identità della doppia canna (M17) espressa  dalle  tre  sbarrette oblique (///); il segno b(A) è più marcato dell’equivalente demotico egizio; identico  il segno della semivocale j rappresentato da una lineetta verticale (І); il segno  x (F32) risulta  nel carattere meroitico più a rientrare  rispetto al demotico; sostanziale similitudine del segno t(j) demotico somigliante ad una specie di quattro inclinato;  leggermente dissimile il segno D (I10) più elaborato in meroitico che nel demotico. Si potrebbe così proseguire nella descrizione di questa scrittura, anch’essa sinistrorsa al pari della demotica, riscontrando, come accennato in premessa,  la chiara derivazione di questa dai segni egizi nelle molteplici configurazioni. Il Griffith basandosi sulla conoscenza di questi ultimi  non ebbe eccessiva difficoltà nel leggerli ma, e qui sta il busillis, riuscì ad interpretare poco o nulla, limitandosi al nome di  qualche sovrano storicamente accertato.  Quasi tutte le scritture risultavano incomprensibili e cosa ben più grave i segni leggibili esprimevano una lingua che non mostrava alcuna affinità con idiomi  attigui all’area interessata, Etiopia ed Egitto compresi. Così per diversi decenni la scrittura meroitica è rimasta avvolta nel più fitto mistero.  Un successivo primo notevole monitoraggio di tale problematica risale ad una ricerca condotta nel 1978 dall’UNESCO dal titolo “The Peopling of Ancient Egypt and the Decipherment of the Meroitic Script”, circa settanta anni dopo le ricerche del Griffith. Ma la svolta che chiamerei, a titolo prudenziale,  schiarita  al problema è stata data dal tedesco Fritz Hintze nel 1979, assieme al suo collaboratore  I. Hoffmann, con la pubblicazione di una sedicente opera dal titolo Beitrage zur meroitischen Grammatik. Per comprendere bene questa problematica bisogna rifarsi ai tentativi precedenti: il Griffith ed Haycock  cercarono invano approcci con il nubiano, analogo insuccesso lo ebbe K.H. Prese con il sudanese orientale, tanto per citarne alcuni. Hintze fu il primo a ritenere del tutto improbabile una affinità del meroitico con qualsiasi idioma dell’area africana e di quella  semitica del vicino Oriente, indirizzando pertanto le proprie ricerche verso altre aree.  Un primo tentativo di approccio verso  le lingue uralo-altaiche non diede concreti risultati, continuando però  nel confrontare vari idiomi con il meroitico, sulla base proposta da Hintze di una triplice analisi filologica, comparativa e sintattico-morfologica, Clyde Winters è giunto a trovare delle analogie soddisfacenti con il tocario. Questa antica lingua, espressa da un alfabeto sillabico,  era  parlata nel Sinkiang cinese, e certamente derivava dalla lingua Brahmi  dell’India centrale meglio conosciuta come Kushana. Con ogni probabilità fu introdotta nell’Asia centrale dai monaci buddisti missionari in quelle lande sperdute del deserto cinese occidentale e dell’attuale Uzbekistan. Il Kushana/Tocario è una lingua del ceppo indo-europeo ed a questo punto ci si pone il problema del come è possibile un’affinità di due idiomi parlati in due località così distanti tra di loro. In epoca faraonica e tolemaica gli egizi consideravano l’intera area sudanese ed etiopica un’unica entità geografica per lo appunto appellata Kush (antico etiopico kashi, sumero Melukka od anche kasi, in ebreo antico kus). I greci ne cambiarono il nome  in Etiopia che vuol dire “Gente dal volto bruciato” i.e. dalla pelle scura, enucleando soltanto l’Eritrea  che in greco significa “Rosso” da cui  l’attuale denominazione di Mar Rosso i.e. mar eritreo. Filostrato di Lemno (II-III A.D.) nella sua “Vita di Apollonio di Tiana” afferma che i Gimnosofisti di Kush, che si erano insediati colonizzandone le zone nel Nilo Azzurro ed Atbara, discendevano  dai Brahmini dell’India,  da dove furono costretti ad emigrare avendo assassinato il loro re. Analoga affermazione la si trova in Eustatio allorché parla dei Kushiti (Meroiti) come di gente venuta  dall’India. Strabone inoltre parla di due etiopie, una in Africa (Sudan/Etiopia) e l’altra in Asia ed anche Erodoto parla di due distinte etiopie. Quanto affermato dai due storici antichi  sarebbe avvallato dal fatto che tutta la vastissima area costituita dalla antica Bactria, Georgia, Elam, Afghanistan e Belucistan era generalmente chiamata Kush da cui il nome alle catene montuose dell’Hindu-Kush fungenti da separazione tra il sub continente indiano e gli altopiani iranici. Che il termine Kush sia stato acquisito dalle genti venute dall’Asia appare poco probabile per il semplice  motivo che il nome Kush fu dato dagli egizi alle terre a sud della I cataratta da epoche immemorabili. Sembrerebbe più probabile il contrario e cioè che gli egizi abbiano esportato tale nome in Asia. Ciò sarebbe suffragato sia da Strabone che Erodoto i quali  parlano di popolazioni egizie che colonizzarono (XII Din. epoca di Sesostris)  la Colchide (altopiani dell’Asia Occidentale, del Caucaso e mar Nero) nonché dallo storico Ammiano Marcellino (I sec. AD) il quale parla dei Colchoi (alias Colchiani) come di una popolazione originaria dell’Egitto, dalla pelle scura,  stanziatasi nelle regioni Caucasiche. Da  quì il nome rimasto di Mar Nero, cioè mare abitato da popolazioni dalla pelle scura e da qui anche l’appellativo di seconda Etiopia a quella larga fascia dell’Asia centrale che si diparte dal Caucaso. Si notino le assonanze fonetiche tra cushiti, colchiani e kazari, tutte aventi per etimo presumibilmente il kush egizio. Sulla base di queste osservazioni che, ad opinione di chi scrive,  avrebbero comunque bisogno di ulteriori e concreti riscontri sul piano scientifico, sarebbe spiegata da una parte la duplice identità del nome attribuito a due  regioni lontane tra di loro e dall’altra la penetrazione in terra sudanese di elementi provenienti dall’Asia centrale che in epoche relativamente recenti diffusero il proprio idioma indoeuropeo. Comunque al di là di tali argomentazioni che certamente suscitano non poche perplessità per eventi storici che parrebbero a prima vista quasi dal sapore romanzato, l’analisi sotto il profilo strettamente tecnico autorizzerebbe ad accreditare una certo fondamento.  Il Winters negli anni ottanta ha condotto un esame comparato del tocario con le scritture meroitiche riscontrando una lunga serie di identità o similitudini inoppugnabili. Si riportano qui di seguito alcune espressioni che non hanno credo bisogno di commento (la prima parola è tocario, la seconda è sudanese): pap-pap; karnak-karnak; kukushka-kurush; shaur-sarur; kandi-kandi; khara-kara; kupuri gabur-capur. Ovviamente queste parole vanno esaminate nel contesto generale di uno scritto ed è questa la ricerca che è tuttora in atto. Estrapolando poi alcune parole di chiara non derivazione camitica e/o camitico-semitica le stesse trovano sorprendente riscontro nel tocario. Si riporta qui di seguito qualche esemplificazione (la prima parola è meroitica, la seconda tocaria): regina = kadke – katak; acqua = ato – ap; giovane = wide – wir; uomo = s – sah; primo = parite – parwe e così di seguito. Ma la cosa di maggior interesse è la ricerca condotta da A.M. Abdalla e B.G. Trigger, sulla base delle impostazioni comparative fornite da Hintze nel suo progetto di grammatica. Costoro ritengono plausibile che una serie di affissi siano legati alle radici di molte parole nel meroitico (es. p – ye – te – n- to ecc.) con la identica struttura dei meccanismi sillabici del tocario-kushana. Ciò sarebbe inconfutabilmente provato confrontando le stesse ricerche del Griffith il quale, come accennato in premessa,  identificò dei nomi di personaggi storici. Il meccanismo proverebbe per lo appunto il sistema di affissi collegati ai sostantivi così come è impostata la lingua tocaria. Abdalla è andato oltre ipotizzando un sistema verbale sostanzialmente  simile sia nel kushana  che nel meroitico. Forme verbali di cui nel linguaggio tocario-kushana se ne conosce il significato troverebbero infatti riscontro pressoché analogo nel meroitico, sulla base anche dell’iconografia di corredo alle scritture. Così ad esempio: pl = pregare; tk = analizzare; y i m-de = rendere offerte ecc. Secondo questi studiosi la scrittura meroitica rappresenterebbe una lingua franca, cioè la lingua ufficiale del paese  che serviva per i rapporti politici e commerciali sia all’interno che al di fuori del regno. Doveva pertanto essere una lingua d’élite, di uomini di cultura, politici, insomma destinata ad una ristretta cerchia di persone. Il resto della popolazione, cioè la gran maggioranza,  avrebbe parlato al contrario i vari dialetti in uso  nelle specifiche regioni di appartenenza.