Appunti di viaggio sul Nilo Bianco

Recentemente ho avuto occasione – quale partecipante ad un’operazione umanitaria – di recarmi nel Sudan (regione del Bahr el-Khalab), ai confini del Kordofan e Dar-Fur meridionale. In queste brevi note ho voluto esternare alcune mie semplici impressioni di viaggio su di una regione del tutto dimenticata. L’area da me visitata è quell’ampia zona ove le acque del Bahr-al Jabal provenienti dal lago Vittoria (Uganda) si uniscono all’affluente del Bahr el-Khalab prendendo il nome di Nilo Bianco. Quest’ultimo unendosi a Karthum al Nilo Azzurro e poi successivamente all’Atbara proveniente dall’Etiopia, darà poi origine al Nilo propriamente detto. La regione è estremamente ricca d’acqua, per la presenza oltre che dei suddetti fiumi anche di corsi minori interessanti una vastissima area. Tale status fa della regione una zona caratterizzata prevalentemente da savana e acquitrini limacciosi che sotto certi aspetti mi ricordano il Polesine. Questa grande area, ai confini tra nord e sud del più grande paese dell’Africa, il Sudan, è in pratica isolata dal mondo. Per arrivarci l’unico accesso è attraverso il posto di confine di Lokichoggio (Kenia settentrionale). In questo sperduto villaggio keniota, ai bordi del cosìdetto Llemi Triangle (vasta area del Kenia rivendicata dall’Etiopia e dal Sudan) esiste un Campo delle Nazioni Unite, struttura creata ad hoc come campo base di supporto per gli aiuti al Sudan meridionale oltre che ai monti Nuba a Nord ed al Kordofan. La località si raggiunge da Nairobi con un volo giornaliero della East African Airlines. Per andare oltre le cose si complicano notevolmente in quanto non esistono né voli di linea, né strade propriamente considerate tali. Gli unici servizi aerei sono gestiti – con costi da capogiro e continuamente variabili anche di molto di giorno in giorno – dall’Organizzazione Umanitaria delle Nazioni Unite per mezzo di piccoli aerei che partono su esplicita richiesta trasportando i pochi viaggiatori e soprattutto materiali di prima necessità. Per raggiungere la contea di Zwik (Stato del Warab) un tratto sulla carta di circa mille kilometri ho cambiato quattro aerei, dapprima a Juba, poi Rumbek, Mau ed infine Turalei impiegando nel complesso quasi due giorni. Tutto il Bahr el-Khalab è in pratica isolato nel vero senso della parola dal mondo. Siamo anni luce dall’Africa gettonata dei safari e delle fictions. Il turismo non esiste, né vi sono interessi commerciali che denotano e giustificano la presenza di un qualcosa chiamato “progresso”. Le altissime temperature (siamo vicini all’equatore) ed il tasso di umidità rendono poi la zona invivibile per un europeo. Le conseguenze di tale isolamento sono rilevanti in quanto ad esempio in località sperdute della regione vi sono persone che non hanno mai visto l’uomo bianco (sic!). Mi diceva un medico italiano volontario recatosi in un tukul isolato per assistere un malato, che i bambini alla sua vista scapparono spaventati. Nelle zone molto lontane dai villaggi, la gente va in giro ancora nuda sia uomini che donne e questo da millenni. Vedere per credere! Condizioni che esistevano ancora, fino a pochissimi anni orsono, anche nei villaggi propriamente detti e solo di recente, ad opera delle missioni cattoliche, soprattutto coloro che hanno abbracciato la religione cristiana indossano degli indumenti. Sotto il profilo socio-politico l’intera regione presenta notevole instabilità essendo stata dilaniata per decenni da un sanguinoso conflitto innescatosi tra il nord islamico ed il sud animista e cristiano e che ha mietuto oltre un milione di vittime. Una delle tante guerre dimenticate di questo straziato continente. Pur essendo stata raggiunta una tregua nel gennaio 2005, de facto continuano gli episodi di violenza ulteriormente alimentati dalla presenza di una gran quantità di armi, residui della precedente guerriglia. Nella zona sono inoltre frequenti gli scontri tribali tra i dinka locali e la tribù vicina dei Nuer. Nel merito giova sottolineare che l’isolamento, anche per brevi distanze, fa si che i dialetti di una tribù siano molto differenti dagli altri, ciò naturalmente favorisce gli scontri essendo per cultura e talvolta anche per religione i vari clan molto differenti tra di loro. Si dice che in ogni tukul vi sia un kalashnikov spesso alla portata dei bambini. Così presso l’ospedale della zona, ove ho in prevalenza soggiornato (una struttura realizzata di recente mercé gli interventi di varie organizzazioni umanitarie), frequente è il ricovero di persone raggiunte da colpi d’arma da fuoco. Oltre ai pericoli dovuti a questo status di perenne instabilità vi è poi la situazione igienico-sanitaria che è “inimmaginabile e drammatica” sotto ogni punto di vista. Non faccio retorica ma cercherò di descrivere un quadro realistico nella maniera più semplice possibile. In primis la zona acquitrinosa, ove si raggiungono a marzo temperature di oltre 50 gradi e umidità vicino al 100% , comporta un tasso di malaria cerebrale tra i più alti al mondo. La malaria è di gran lunga la prima causa di morte, seguita dalla TBC ed ora anche dall’aids, ciò a seguito del ritorno di molti profughi dal nord ove tale sindrome è ben radicata. Si aggiungano poi tutte le altre malattie tipiche delle zone tropicali, tra cui ricordo il cosìdetto verme di Guinea molto presente in zona, senza tener conto della rabbia diffusissima tra gli sciacalli e cani randagi, nonché i decessi per morsi da serpenti velenosi, la cui presenza – in relazione all’habitat favorevole – è numerosissima. Dulcis in fundo c’è da segnalare la frequentissima mortalità post partum (ogni 7 parti muore una donna, molto spesso bambine di dodici, tredici anni), nonché le morti per banali appendiciti o ernie strozzate. Al reddere ad rationem un quadro pertanto a dir poco apocalittico, eppure in tanto marasma ho visto persone serene che si accontentano di quel poco che hanno. Questa gente mostra un aspetto frammisto di dignità e oserei dire di nobiltà, così come lo sono al pari le vicine popolazioni dell’Etiopia; in ciò favoriti dalla statura molto alta (sia per uomini che per donne intorno ed oltre i 180-190 cm.) e dalla corporatura magra ed asciutta. Un particolare mi ha colpito, le donne abituate a portare dei grossi pesi in equilibrio sulla testa, hanno – grazie alla statura ed alla esilità del corpo – un portamento armonioso che credo farebbe invidia alle modelle delle grandi sartorie. E’ gente dedita alla pastorizia ed alla coltivazione, su modestissimi appezzamenti di terra, soprattutto di lenticchie e fagioli costituenti la principale e fondamentale dieta, oltre s’intende ai prodotti lattiero-caseari della pastorizia. Contrariamente a tanti posti del terzo e quarto mondo mete del turismo e pertanto inquinate del cosìdetto pseudo-progresso, nessun bambino o adulto si è avvicinato per chiedermi qualcosa. E’ gente che vive con dignità la propria difficile esistenza.